Lost in the Big City - Racconto Introspettivo su Fringe

Buon lunedì a tutti!
Continuo con la mia fissa con "Fringe" regalandovi questo mio strano racconto, nato dalla mia voglia di esplorare i sentimenti di Peter Bishop dopo le scioccanti rivelazioni sulla sua origine alla fine della seconda stagione.
E' una storia molto cupa, introspettiva e malinconica, non aspettatevi lieto fine, anche se chi conosce la serie sa che poi le cose si aggiusteranno.
Dal mio punto di vista credo che Abrams avrebbe dovuto approfondire meglio questo frangente, non buttandosi a capofitto subito nel classico triangolo amoroso, che però in questo caso è meno classico: ne abbiamo già parlato.
Buona lettura e buona settimana.


Lost In The Big City.

Boston, Maggio 2010, Tre del Mattino



La città più europea degli Stati Uniti giaceva addormentata, cullata da una pallida luna a falce che svettava sugli alti palazzi, rischiarando le vie più buie e nascoste.
A quell’ora si potevano vedere in giro pochi taxi, qualche guardiano notturno, il resto dei suoi abitanti, tranne i medici e gli infermieri degli ospedali e i poliziotti, persino nel campus di Harvard, dormiva.
Un giovane uomo passò di fianco ad uno dei cancelli della famosa università, i suoi occhi erano di un blu molto particolare, in genere erano quelli ad attirare l’attenzione di tutti, solo che ora erano spenti, vacui e persi nel vuoto.
Si fermò su quel cancello, ne sfiorò le sbarre, però non le oltrepassò, limitandosi a fissare i vari edifici di quel luogo che aveva imparato a chiamare casa in quegli ultimi due anni.
Casa, sì.
Lui che aveva giurato di non fermarsi mai troppo a lungo da nessuno parte, due mesi al massimo, senza legami, senza passato, vivendo alla giornata, senza morale.
Aveva giurato di non farsi coinvolgere da nessuno, in particolar modo dalla famiglia, dalla sua famiglia: sua madre morta, suo padre finito in manicomio.
La famiglia per lui era sempre stato sinonimo di dolore e rimpianto.
Se si voltava indietro ricordava soprattutto un’infanzia e un inizio di adolescenza molto tristi, in un posto che non sentiva suo, con una madre che cercava di dargli anche l’affetto che suo padre, troppo impegnato nei suoi dannati esperimenti scientifici, non aveva mai saputo dargli.
Forse per quello che era scappato da tutto quel dolore, aveva rinunciato ad avere ogni tipo di rapporto con il prossimo, era vuoto di dentro e di fuori.
Cercava di impedirsi di pensare, annebbiandosi il raziocinio con l’alcool, in quello, disgraziatamente, non era molto diverso da Walter: suo padre si sballava con la droga, lui con l’alcool.
Il calore che sentiva quando lo buttava già era qualcosa di confortante, certo un pallido riflesso di quello che sentiva nell’abbraccio di sua madre oppure di quello suo padre, una delle poche volte in cui lo aveva abbracciato, al lago Reiden, quando lui tremava intirizzito dal freddo.
Anche se era in stato di incoscienza aveva sentito quell’abbraccio disperato e aveva creduto che significasse affetto, invece era stata un’amara delusione perché da quel giorno suo padre si era dimostrato sempre più distante e freddo, lontano, rinchiuso nel suo laboratorio, spesso non lo sentiva neanche rientrare.
E le poche volte che lo vedeva parlava sempre e solo di scienza, la odiava, come odiava lui, come odiava tutti.
Una parte di se aveva persino gioito nel vederlo rinchiuso al Saint Claire: era la giusta punizione per il totale disinteresse dimostrato a lui e a sua madre, che, si era poi suicidata per il rimorso.
Già rimorso, solo che all’epoca lui non aveva saputo niente di questa storia, aveva creduto che lei fosse morta in un incidente così gli aveva raccontato suo padre nell’unica telefonata che si erano fatti in diciassette anni.
 Eppure il suo cuore, il suo cuore in inverno, aveva sentito che c’era qualcosa che non andava, piangendo, per la prima volta dopo anni, da solo nella sua camera e arrivando a sbronzarsi peggio del solito.
Tempo qualche giorno era tornato alla sua vita di uomo cinico e spregiudicato di sempre, era stato confortante tornare ad essere quell’uomo, così poteva fingere di non provare sofferenza.
Poi un giorno era arrivata lei.
Olivia Dunham, agente dell’Fbi tutto d’un pezzo, dai modi spicci, sbrigativi, persino peggiori dei suoi, anche se per un breve istante gli aveva aperto il cuore, mostrandogli quel dolore e quel senso di smarrimento che lui conosceva fin troppo bene.
Era per quello che aveva ceduto?
Che aveva allontanato da se tutti i dubbi e le paure?
La sua vocina interiore, quando lei aveva nominato suo padre, aveva iniziato a gridargli di fermarsi, che sarebbe stato ferito di nuovo da quell’uomo folle e senza cuore, egoista ed ambizioso.
Quell’uomo che non meritava il suo perdono.
Non l’avrebbe mai meritato.
Si era lasciato coinvolgere fin da quel primo dannatissimo giorno in cui erano andati al Saint Claire a riprendere suo padre, anche se aveva mostrato freddezza e distacco, gli aveva fatto male vederlo così perso.
Non era più lui.
Sembrava solo la pallida ombra dell’uomo che gli aveva ispirato prima ammirazione, poi affetto e infine odio per essere stato lasciato troppo spesso da solo.
In quel momento aveva compreso che non lo avrebbe più riportato in quell’inferno perché qualunque fossero le colpe di Walter nei suoi confronti e nei confronti del mondo, diciassette anni di inferno erano una punizione più che sufficiente.
E così giorno per giorno era entrato a far parte del mondo dell’Fbi.
 Gli piaceva sempre dirlo :

“Sono un consulente dell’Fbi”.

Gli piacevano i casi a cui lavorano, sempre più oltre il limite della… come poteva definirla? Follia? Fantascienza?
Forse entrambe le cose?
Aveva persino imparato ad amare Gene, quando arrivava in laboratorio la mattina non vedeva l’ora di sentire quel muggito.
Sapeva che subito dopo avrebbe sentito suo padre ed Astrid discutere animatamente di qualcosa.
Non avrebbe mai dimenticato, per tutta la vita, la festa di compleanno che quei due gli avevano fatto.
Il suo cuore che aveva sanguinato per anni, per troppi anni, aveva iniziato a stare meglio, non sentiva più la paura degli altri, il bisogno disperato di chiudersi a riccio.
La prima volta che era andato a casa di Olivia, quando aveva incontrato sua sorella Rachel e la piccola Ella, si era lasciato andare come non mai.
Quella bambina lo aveva fatto ridere di cuore.
Era felice, lo sapeva.
E sapeva anche un’altra cosa.
Che aveva perdonato suo padre.
E la cosa non gli faceva più paura, anzi era una bella sensazione, gli faceva persino venire in mente quella frase… dove l’aveva sentita?

“Sbagliare umano, perdonare è divino”

Si sentiva un Dio?
No, non era nella sua natura, però era divertente quella frase ed adatta alla sua circostanza.
Forse perché il perdono aveva portato requie alla sua anima tormentata, facendo sparire in un istante rabbia e rancore.
Suo padre era cambiato ed era cambiato per lui, ora lo amava e lo metteva al primo posto.
Questo non lo avrebbe mai dimenticato.
Perciò era felice di vederlo cucinare per lui qualsiasi cosa: dalla crema pasticcera alle caramelle, dal pancake al milk-shake.
La sua famiglia non era una famiglia tradizionale, ma ora gli andava maledettamente bene, non avrebbe mai voluto distruggere quello splendido equilibrio creato tra loro.
Ecco perché, temendo di non essere considerato altro che un amico da Olivia, le aveva detto che si sarebbe accontentato di essere quello, che per lui andava bene considerare quel loro quasi bacio un errore.
Era sincero, non voleva perdere la sua amicizia perché lei faceva parte del suo meraviglioso incastro e perché senza di lei non lo avrebbe mai avuto.

“Volevo ringraziarti perché è per te io ora ho un rapporto con lui”

Aveva bevuto un po’ quella sera, un po’ perché era felice un po’ perché quella per lui era una situazione del tutto nuova, che lo spaventava.
La felicità.
La gioia.
La comunione di intenti per il bene comune.
Il perdono.
Il suo posto.
Una famiglia.
La sua famiglia.
Una famiglia che era stata spazzata via di nuovo come venti anni prima.
L’uomo poggiò la testa contro le sbarre facendo vagare i suoi occhi verso quegli edifici bui, eppure anche da lì poteva vederli, in particolare riusciva a vedere il suo laboratorio.
Sarebbe bastato un niente per poter attraversare quella soglia, magari andare a piangere lì, ma non voleva, temeva di farsi trovare da loro.
Loro che lo avevano tradito mentendogli, negandogli la verità e facendogli perdere la sua identità.
Sentì uno scroscio d’acqua in lontananza, poi man mano la sua stessa strada e il campus furono inondate di pioggia, però ora non riusciva a sentirla.
Non sentiva niente.
Solo il ripetersi di quelle poche parole che lui e Walter si erano detti poche ore prima.

“Avevi detto che le vibrazioni sarebbero state devastanti e infatti l’agente è stato ucciso, letteralmente polverizzato.
Ma non hanno ucciso l’uomo sul ponte, l’uomo che veniva dall’altra parte.
E non hanno ucciso me.
Io non sono di questo mondo, vero?
Non hai aperto solo un portale, lo hai attraversato per venirmi a prendere”
“Ascoltami tu stavi morendo, figliolo”
“IO NON SONO TUO FIGLIO”

Quella frase aveva fatto più male a lui che a Walter perché ora il suo mondo era crollato in mille pezzi e stavolta non ci sarebbe stato rimedio, non ci sarebbe stato perdono, non ci sarebbe stato chi avrebbe rimesso insieme i cocci del suo cuore.
E non avrebbe più ritrovato il suo posto perché non sapeva più chi era.
Sentì la pioggia cadergli sulla giacca, era ormai fradicia, aveva freddo?
Forse sì e non era solo un fatto fisico.
Si staccò dalle sbarre e camminò fino all’unico bar che trovò aperto.
Ordino del whisky, iniziando a berlo in silenzio mentre il suo cellulare prese a trillare a più non posso.
Lo tirò fuori dalla tasca con la vista ormai annebbiata.
Era lei.
Cosa diamine voleva?
Dirgli che aveva mantenuto il segreto per proteggerlo?
Bugiarda!
Bugiardi tutti e due!
Il suo primo istinto fu di lanciare il telefono per terra e farlo in mille pezzi, poi pensò che sarebbe stato più diabolico farla continuare a chiamare senza avere risposta.
Che andasse all’inferno lei e la sua falsa gentilezza.
Non ci credeva più.
Lo avevano trattato come un bambino idiota, un oggetto da prelevare e utilizzare a proprio uso e consumo, fregandosene dei suoi sentimenti.
Bene, ora avrebbe ricambiato il favore, li avrebbe fatti soffrire nel vano tentativo di trovarlo.
Perché sì, non si sarebbe mai più fatto trovare.
E non solo da loro.
Buttò giù l’ennesimo bicchiere, assaporando il calore del liquore, sperando di riuscire di nuovo ad accontentarsi di quel tipo di calore dato che questa volta non avrebbe più accettato di accoglierne in altro modo.
In quel mentre partì l’ennesima chiamata di Olivia, fissò il telefono, con lo sguardo vacuo.
“Signore va tutto bene?” domandò il barista osservandolo preoccupato: si era scolato in meno di mezz’ora una bottiglia di whisky e ora stava iniziando con la seconda.
“Sì, credo di sì” biascicò Peter continuando a fissare il telefono: forse avrebbe potuto risponderle.
Forse non sarebbe stato male accettare almeno le sue spiegazioni.
“Ed allora perché non risponde?” insistette il barman scuotendo le spalle del giovane Bishop, che finalmente si decise a voltarsi verso il suo interlocutore: somigliava un po’ a Broyles, solo che aveva una folta capigliatura e pareva molto meno glaciale.
“Non è importante” replicò con la voce sempre più impastata Peter. Non aveva voglia di sentirla, si sarebbe fatto convincere da altre bugie e non se la sentiva di farlo.
Erano tutti dei bugiardi.
“E’ sicuro?” provò ancora il barman guardando quel ragazzo con sempre maggiore apprensione. Ne aveva viste diverse persone così, che sentivano il bisogno di affogare nell’alcool i propri dispiaceri.
Solo che nel volto di quel giovane c’era altro.
C’era una cupa disperazione.
Anche se non era un telepate, capiva dai suoi occhi che si sentiva mancare la terra sotto i piedi.
Cosa gli era successo?
Una delusione d’amore?
La morte di una persona cara?
Forse dei genitori?
“Sto bene, mi lasci perdere” balbettò Peter riempiendosi l’ennesimo bicchiere e buttandolo giù.
“Non credo proprio. La posso aiutare” affermò l’uomo prendendolo per un braccio, ma subito il giovane Bishop si divincolò come se stato fosse morso da un serpente.
Non voleva più contatti umani.
Gli facevano orrore.
In fretta e furia tirò fuori i soldi, pagò e uscì dal locale, lasciando il barista esterrefatto e molto dispiaciuto per la sua sorte.
Peter continuò a camminare per altre due ore sotto la pioggia, sperando che tutta quell’acqua lavasse via il suo dolore e il suo senso di smarrimento, vagando nella città addormentata che ora non sentiva più sua.
E nel suo girovagare giunse ad una stazione di bus, qui, ancora in catalessi, prese un biglietto per il primo pullman in partenza, ignorandone totalmente la destinazione, vi salì, si sedette su uno dei sedili nel retro e si lasciò vincere dal sonno, sperando che con esso potesse arrivare anche l’oblio di tutti i suoi sensi.

Fine


Commenti

Anonimo ha detto…
Molto bella tesoro!! Povero Peter ;( Ora mi aspetto il seguito eh *_*
Simona
ImpiegataSclerata ha detto…
Buaaaaaaaaaaaaaaaahhhhhhhhh. Tristissssssimo ma me lo immagino proprio così il post fuga dall'ospedale di Peter.
Silvia Azzaroli ha detto…
@Simona= grassie cara^^, prima o poi ci arrivo a fare il seguito, magari includendoci anche il punto di vista di Olivia e Walter stavolta^^.
Yes, povero Peter :(...
@Baba= sono proprio contenta di sapere che lo vedi così il post fuga dall'ospedale del nostro Peter^^. E mi fa piacere averti commosso;).
Sì, sono terribile quando mi ci metto con il lato triste^^
Un abbraccio ad entrambe!

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